
Era marzo del 2011.
Lo ricordo nitido, come se avessi ancora le mani sul volante, l’odore dell’acqua bagnata nei vestiti, il rumore dei tergicristalli ke facevano ciak ciak su un parabrezza impastato di fango e stanchezza.
Ero andato a Frattamaggiore, in Campania, x ritirare alcuni serpenti ke avevo acquistato tramite amici. Quell’anno c’era stata la fiera di Hamm Terraristika — la + grande terraristica d’Europa — e noi siciliani, ke nn potevamo permetterci il viaggio, ci eravamo organizzati così: loro compravano, io ritiravo. Tutto semplice. Tutto pulito.
Quel pomeriggio ero stanco ma sereno. Avevo fatto il mio dovere, avevo il box di polistirolo chiuso con lo scotch, gli animali dentro tranquilli e la testa già a casa.
Pioveva, sì, ma nn mi pesava.
Avevo pensato di dormire sul traghetto x Palermo, sbarcare riposato e sistemare subito i terrari. Poi, come spesso succede, la testardaggine prese il sopravvento: “Ke me ne faccio del traghetto? Mi sparo la strada e domattina sto già a Castelbuono.”
Ma nel 2011 la Salerno–Reggio Calabria nn era un’autostrada. Era una punizione divina.
Un budello di cemento, cantieri, buche, deviazioni, file di tir.
La pioggia si mescolava alla nebbia, e la nebbia alla paura. A volte guidavi nel vuoto, col pensiero ke l’asfalto potesse sparire da un momento all’altro.
Nonostante tutto, andavo avanti.
Finché, verso sera, mi fermai in una stazione di servizio. Una di quelle piccole, tristi, con un bar infilato in un container e accanto un altro container con le luci al neon e un omino con la divisa Q8 seduto davanti a un PC.
Appena scesi, vidi una Y10 bianca — vecchia, anni ’90, tenuta in vita x miracolo — e una ragazza accanto. Avrà avuto 20 anni, forse 22. Bionda, truccata pesante, grandi cerchi dorati alle orecchie, cappellino storto, giubbotto di jeans.
Carina, sì. Ma io nn ci feci neanche caso. Avevo la testa solo al viaggio.
La pensilina della stazione era mezza rotta, bucata in + punti. L’acqua piovana filtrava dai fori e cadeva addosso a tutti noi, lenta ma continua, bagnando spalle, collo e vestiti. Nonostante fossimo “coperti”, eravamo fradici. Gocce fredde mi scivolavano dietro la nuca, dando quella sensazione fastidiosa ke ti entra nella pelle e ti fa solo venir voglia di sbrigarti e andartene.
Mi arrivò un messaggio su WhatsApp — all’epoca era ancora una novità. Presi il telefono, lo lessi, e mentre camminavo verso la pompa notai sulla ruota anteriore destra una bolla strana. Mi abbassai, col telefono ancora in mano, e toccai la bolla col dito.
E in quell’istante…
“Ma ke fai?! Mi stai guardando sotto la gonna, porco! Maniaco! Mi fai schifo!”
Mi pietrificai.
Pensai parlasse con qualcun altro. No. Guardava me.
Io, accovacciato, col dito su quel rigonfiamento di gomma, telefono nell’altra mano e la faccia di chi nn capisce un c***o.
In pochi minuti la situazione è esplosa.
Si fermano 2 macchine, poi altre, scendono persone, lei urla. La versione cambia ogni volta. Prima “ha guardato sotto la gonna”, poi “mi ha toccata”.
Mi ritrovo circondato da una dozzina di persone ke nn mi conoscono, ma basta una parola — maniaco — x trasformarmi nel nemico.
“Porco!”
“Vergognati!”
“Chiama la polizia!”
“‘Sto bastardo va arrestato!”
Provavo a parlare, ma nn mi lasciavano dire nulla.
Ricordo quella donna enorme: leggings neri, felpa viola, capelli viola. Mi guarda dritto negli occhi… e mi sputa in faccia.
La saliva mi arriva calda, densa, con odore di tabacco e caffè rancido. Quella sensazione ce l’ho ancora addosso.
Il cuore mi batteva a mille.
Le gambe tremavano.
Mi guardavo intorno e vedevo solo rabbia negli occhi della gente.
E lì, nn so manco xké, ho iniziato a dubitare di me stesso.
“Forse un gesto, forse…”
La paura vera ti mangia la logica.
Poi arrivò la pattuglia della Polizia Stradale.
Sirena, lampeggianti, due agenti. Una donna — la capopattuglia — e un uomo.
Lei scende decisa, chiede ke succede. La folla urla tutta insieme, e il dito è puntato su di me.
La poliziotta fa un cenno al collega, prende i miei documenti. Mi domanda nome, cognome, dove vado. Rispondo come un automa.
La ragazza piange seduta nella Y10, i piedi fuori, il viso tra le mani.
Arriva un’altra pattuglia: altri 3 agenti.
Due restano con me, uno va con la folla.
L’omino della Q8 fa un cenno alla poliziotta, entrano nel container. Dopo poco chiamano la ragazza.
Io resto fuori. Sotto la pioggia. Con una dozzina di occhi ke mi bruciano addosso.
Inizio a tremare davvero.
Penso a mia madre. Alla mia compagna. Agli amici ke mi avevano affidato gli animali.
Penso a Carcere di Poggioreale.
Penso ke nn saprebbe nessuno dove sono.
La paura si fa liquida e ti affoga.
La poliziotta esce.
Mi chiama.
Entro.
Sul monitor scorrono le immagini: io scendo, telefono in mano, mi chino, tocco la ruota. Niente altro. Nessuno sguardo. Nessun gesto.
Lei mi guarda e dice:
“Lei nn stava guardando il sedere della ragazza, vero?”
Scoppio in una risata nervosa. Lei accenna un sorriso.
La ragazza dice piano:
“Oh… scusa. È ke con tutti ‘sti maniaci in giro uno nn sa mai ki incontra.”
Fine. Così.
Come se 20 minuti d’inferno potessero cancellarsi con una frase.
La poliziotta spiega tutto alla folla.
Si calmano. Chi va a fare rifornimento. Chi entra al bar. Chi fuma.
Nessuno mi guarda. Nessuno mi chiede scusa.
Mi dicono ke posso sporgere denuncia.
Il collega dice: “Ma no dai, si vede ke è una brava persona, un padre di famiglia…”.
Mi stringono la mano. Se ne vanno.
Io resto lì.
Sotto la pioggia.
Entro in macchina. Mi parcheggio. Tremavo.
Nn di freddo: di paura vera.
In venti minuti mi era crollato addosso tutto.
Chiamo a casa, dico ke dormo lì. Ma nn dormo.
Resto sdraiato a guardare il soffitto, con le urla ke rimbombano in testa e la sensazione di quella saliva sulla guancia.
E arrivano le domande:
“E se nn ci fossero state le telecamere?”
“E se le avessero creduto?”
“E se mi arrestavano?”
“E se la mia famiglia lo veniva a sapere così?”
“E se mi distruggevano la vita x una bugia?”
Esco alle 4 e vado al bar x un caffè.
Il barista racconta a un cliente:
“Eh… la ragazza ha esagerato, ma hai visto com’era quello? Grosso, siciliano, faccia da arrogante. Sicuro qualcosa ha fatto.”
Parlava di me. Ma nn lo sapeva.
Pago. Esco.
Da quella notte nn sono + lo stesso.
Xké anche se la storia è finita “bene”, mi ha marchiato.
Se oggi vedo una ragazza da sola a fare benzina, tiro dritto.
Se entro in un negozio e c’è solo una donna, me ne vado.
Se sono in ascensore con una sconosciuta, mani in tasca e occhi al soffitto.
Nn x imbarazzo.
X paura.
Ho imparato ke basta un urlo x distruggere una persona.
Un malinteso x cancellarti la faccia.
Un attimo x diventare un mostro.
Io ho retto xké ho la pelle dura.
Ma ci ho messo anni a digerire tutto.
Ho provato vergogna, rabbia, impotenza.
Ho odiato quella notte.
Poi ho imparato a conviverci.
Oggi la racconto xké magari qualcuno di quelli ke era lì leggerà.
Magari quella donna con la felpa viola ricorderà lo sputo.
Magari quella ragazza con la Y10 capirà ke un malinteso può devastare una vita.
Chissà.
Io, da quella notte, nn sono + lo stesso uomo.
Ho continuato a vivere, lavorare, crescere i miei figli.
Ma dentro… una parte di me è rimasta lì.
In quella stazione di servizio, sotto la pioggia ke colava dalla pensilina rotta, con gli occhi della folla puntati addosso.
20 anni di dignità cancellati in un lampo.
E da allora, ogni volta ke guardo qualcuno negli occhi, ho quel riflesso istintivo: abbassarli un po’, giusto un po’, x nn dare motivo a nessuno di fraintendermi.
Basta poco.
Un attimo.
Una parola sbagliata.
E da uomo… diventi mostro.
E quel marchio, anche se la verità ti salva… dentro, nn se ne va +.
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