ORRORE E TENEREZZA NELLO STESSO RESPIRO

Pubblicato il 15 ottobre 2025 alle ore 09:03

Gli allevamenti intensivi sono progettati per massimizzare la produzione: animali stipati, spazi minimi, assenza di stimoli, procedure meccaniche costanti. Le mutilazioni (taglio della coda, débeccaggio, castrazione senza anestesia) diventano rituali industriali, la selezione genetica forzata per crescita rapida genera malattie scheletriche e sofferenze, la trascuratezza e il sovraffollamento diffondono stress, ferite, infezioni. In quei casermoni che qualcuno chiama “allevamenti”, si consuma quotidianamente un’atrocità che resta invisibile ai più, nascosta dietro muri e silenzi.

Eppure, in mezzo a questo inferno protetto dall’indifferenza, può affiorare una scintilla di tenerezza: una madre che allatta, un muso che cerca il calore, un attimo in cui la natura ribolle ancora, contro ogni logica del profitto. Quell’istante non cancella l’orrore, ma lo rende ancora più insopportabile, perché ci ricorda che dietro ogni numero di produzione, dietro ogni unità di carne o latte, c’è una vita.

L’Unione Europea, sul piano normativo, ha introdotto alcune linee guida che riconoscono il principio che gli animali sono esseri senzienti e che i loro bisogni debbano essere tutelati.

Già la Direttiva quadro 98/58/CE “sugli animali negli allevamenti” stabilisce che gli allevatori devono adottare tutte le misure ragionevoli per evitare che gli animali subiscano sofferenze non necessarie.  Norme specifiche hanno vietato le gabbie batterie per galline ovaiole (dal 2012) e, in parte, le gabbie per scrofe gravide (gestazione), salvo restrizioni temporanee.

Si sta lavorando a revisioni legislative che rafforzino il benessere, migliorino il controllo e rendano più vincolanti alcune misure oggi timide.

Ma le norme restano spesso solo parole, lontane dall’essere rispettate nei fatti. Le ispezioni sono sporadiche, le sanzioni lievi rispetto al profitto che ricava chi non adegua. Organizzazioni veterinarie e associazioni per il benessere animale evidenziano gravi carenze nell’applicazione: poca trasparenza, dati incompleti, assenza di controlli sistematici nei lager zootecnici, soprattutto nelle grandi catene produttive.

Spesso le regole vengono aggirate, tollerate, sindacate come eccessive spese da tagliare. In troppi casi, le atrocità si compiono nel buio di capannoni che null’altro sono se non fabbriche di dolore.

Si dà un nome muffito a questi luoghi: “allevamento intensivo” — ma quella parola dice già tutto: intensivo, cioè spinto al limite, senza respiro, senza margine per il sentire, per la sofferenza. Laddove si cerca di allevare animali come merci, ogni vita è sacrificata sull’altare della resa e del prezzo.

Orrore e infinita tenerezza si fondono in quell’immagine che inquieta l’anima: un piccolo beato nel ricordo del latte, un attimo che parla più forte di mille numeri di produzione. Quel frammento diventa testimonianza, accusa e domanda. Finché ci sarà chi preferisce voltarsi dall’altra parte, mentre la crudeltà prosegue, non potremo dire davvero di aver fatto il necessario.

Bisogna che le norme europee diventino vincoli inderogabili, che chi viola paghi con durezza, che l’industria zootecnica si trasformi o venga riformata radicalmente. Bisogna che chi consuma si chieda cosa c’è dietro quel prodotto. Bisogna che l’orrore non resti nascosto e che la tenerezza che germoglia — per un attimo — diventi motivo di riscatto.

Questo è un richiamo: chi ama non può tacere. Chi ha il cuore capisca: la vera rivoluzione comincia da un atto quotidiano, da un’immagine che cambia lo sguardo.

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